Luigi Grechi è uno straordinario artista, cantautore e chitarrista: è fratello di Francesco De Gregori e ha scelto il cognome della madre come nome d’arte.
Grechi è da sempre un mito per la prof.ssa Artale, che lo ha incontrato e intervistato per noi
Luigi Grechi musicalmente nasce alla fine degli anni ‘60 al Folkstudio di Roma. Nel 1975 pubblica il suo primo album, “Accusato di libertà”: in quegli anni suona in giro per festival alternativi, radio libere, locali e cantine; pare lo si trovi a leggere i Tarocchi ai passanti e a viaggiare su e giù per l’Italia, l’Irlanda, gli Stati Uniti. A Milano fa il bibliotecario, mentre continua a suonare e incidere brani corrosivi come “Elogio del tabacco” o “Il mio cappotto”, splendidi esempi di discografia non allineata che gli procura stima da parte di un pubblico di nicchia. Alla fine degli anni ‘80 lo ritroviamo con qualche pubblicazione in più e l’attività di bibliotecario alle spalle. Ha pubblicato “Tutto quel che ho 2003-2013” e ha tradotto “La ballata di Woody Guthrie”, un graphic novel di Nick Hayes dedicato alla vita del grande folksinger. Ho incontrato il grande Grechi con immenso stupore il 6 novembre 2024 a Milano, al Teatro Out Off, in occasione del concerto di Francesco De Gregori, mio personale mito musicale.
Grazie per l’intervista. La tua carriera è lunghissima e di grande successo, raccontami come è nata.
“Da ragazzino ascoltavo la radio, i miei adoravano le opere e a me non piacevano per niente; ero più interessato alle canzoni, divertenti e fantasiose. Poi arrivò dall’America il rock e fui catturato subito dal suono delle chitarre, acustiche ed elettriche, così diverso dalle classiche con corde di nylon. Diventai un fan di Elvis Presley, degli Everly Brothers. Scoprii il blues, il folk americano, inglese, europeo. In seguito, ci fu il Folkstudio di Roma. Intanto imparai a suonare la chitarra, ma non pensavo di fare delle canzoni il mio mestiere. Ero orgoglioso di essere un dilettante, era allora un po’ la filosofia del folk: lavoravo nella Biblioteca civica di Milano ma nel frattempo avevo registrato tre LP di canzoni mie, per concerti e sedute di registrazione prendevo ferie. Quando divenne impossibile e dovetti scegliere, tradii i libri per la chitarra”.
Qual è il libro che più di tutti ha cambiato la tua vita, se ce n’è uno?
“Forse “Martin Eden” di Jack London oppure “La valle dell’Eden” o “Furore” di Steinbeck. O magari “Don Camillo” di Guareschi. Ma in realtà nessuno: forse ciò che ha cambiato la mia vita, per disgrazia o per fortuna, è stata la scoperta del Folkstudio…”
Ho avuto il privilegio di assistere al concerto di Francesco con te accanto. Cosa si prova a trovare il proprio fratello al centro della scena?
“Al Folkstudio ero direttore artistico dello spazio giovani che si teneva la domenica pomeriggio: ne approfittai per mettere sul palco per la prima volta (ed altre successive) Francesco. Cominciò da lì il suo successo. Lo apprezzavo allora come adesso e oltre all’ammirazione c’è una certa dose di orgoglio. Sono sempre stato vicino alla sua carriera, specialmente agli inizi”.
Parliamo del brano “Il ‘56”. “Mio fratello che studiava lingue misteriose” mi ha sempre fatto sognare. Com’era da piccolo Francesco?
“Fra di noi c’è una differenza di sette anni e nel periodo a cui si riferisce la canzone, diciamo sei anni di età contro tredici, la situazione non era facile anche perché dovevamo dividere la stessa stanza. Avevamo tracciato un confine che era sempre attaccato e invaso da entrambi con liti furibonde. Io ero un despota e ancora oggi me ne vergogno molto a ripensarci, ma col passare degli anni le cose sono migliorate e siamo diventati buoni amici, con gusti per lo più comuni: certamente la musica è stata complice, ma quando lui ha cominciato a soffiare nell’armonica e io affrontavo per la prima volta il greco era proprio dura!”.
Restando in tema, mio fratello Corrado adora il brano “L'angelo di Lyon”, presente nel cd “Per brevità chiamato artista” di Francesco. Cosa ti ha colpito della canzone?
“L’ho tradotta e cantata per primo nel 1999, nel mio CD “Cosìvalavita”. Ho conosciuto gli autori, Tom Russell e Steve Young, e ho chiesto a loro come mai avessero collaborato firmandola insieme. È una storia interessante, vale la pena che te la racconti. Steve era in teatro a Lyon per un suo concerto e aveva notato, in prima fila, una bellissima ragazza dal viso angelico. Non smise di fissarlo con uno sguardo intenso, pieno di adorazione, da innamorata, tanto che Steve mentre cantava pensava alle dolcissime promesse che sembrava sottintendere. Il concerto ebbe termine, ripose lo strumento e sbrigò le formalità amministrative; il pubblico aveva lasciato la sala, uscì e si guardò intorno, della meravigliosa creatura nessuna traccia. Dedicò più di un’ora a un’inutile ricerca nelle vie della città, intorno ai due fiumi che lì confluiscono, Rodano e Saona, maschio e femmina che lì celebrano le loro nozze alchemiche. Niente. Il giorno dopo girò per tutta la città, nei bar eleganti, nelle librerie, nei negozi di musica. Niente. Tornato in America incontrò l’amico Tom Russell e scosso dalla mancata avventura gli raccontò tutta la storia. Russell l’ha scritta raccontandola a modo suo, densa di mistero, di magia, di follia. Mi ha affascinato subito e ho cercato di trasmettere le stesse emozioni. Evidentemente ci sono riuscito”.
Con “Il bandito e il campione”, cantata da Francesco, ti sei aggiudicato a Sanremo la Targa Tenco nel 1993 come miglior canzone dell’anno. Come è nata questa canzone?
“Quando ero a Milano avevo un carissimo amico, Giancarlo Cabella, di Novi Ligure, luogo di nascita sia del bandito che del campione; mi aveva raccontato tante storie di paese. Di Girardengo era facile avere notizie, meno per Sante Pollastri poiché negli anni del fascismo non si dava risalto alle notizie di cronaca nera. Restavano dicerie dalle quali traspariva l’immagine del “bandito gentiluomo”, appassionato ciclista e tifoso di Girardengo. Una quantità di imprese criminali e leggendarie ne facevano un personaggio affascinante, poi la storia del suo arresto a Parigi, della detenzione, della scarcerazione dopo la grazia concessa per aver sedato una rivolta: tutto questo lo facevano degno di un film, di un grande romanzo. Per parecchi anni lasciai perdere anche se questa bellissima storia mi tornava sempre in mente, finché un giorno, per miracolo, bastarono cinque minuti per raccontarla. Era come il trailer di un film non ancora uscito, una serie di immagini, di flash accattivanti che eccitavano la curiosità più che soddisfarla: forse è stato questo il segreto del suo successo”.
Descrivici gli anni e le emozioni dei tuoi primi passi al Folkstudio di Roma.
“Ti ho già raccontato di come portai lì sul palco Francesco per la prima volta. Il Folkstudio era stato fondato nel 1962 da Harold Bradley, un nero americano che aveva giocato nella prima serie di calcio americano e poi si era laureato in Arti Figurative presso l’Università per Stranieri di Perugia. Nel suo studio di Roma, a Trastevere, aveva aperto il locale dove si riunivano pubblico e musicisti da tutto il mondo. C’era passato Bob Dylan e molti altri che sarebbero diventati famosi. Quando ci misi piede per la prima volta restai folgorato; lì ho frequentato le lezioni gratuite di chitarra americana. Ho imparato tantissimo, è stata per me una specie di università musicale: ho fatto incontri importanti, da Stephen Grossman a Fabrizio De Andrè e Giovanna Marini”.
SINARRA (2021) è un CD autoprodotto insieme a Paolo Giovenchi. Qual è la forza di questo cd?
“È nato durante la pandemia, con il progetto “Una canzone al mese” sul mio sito www.luigigrechi.it; poi, rivisto e corretto, è stato stampato su CD. Ne sono particolarmente orgoglioso perché non ha una distribuzione ufficiale e lo vendo privatamente e personalmente su Ebay: lo imbusto, vado in ufficio postale e lo spedisco. Ne ho vendute poche centinaia di copie, nulla secondo gli standard commerciali ma tantissimo secondo me, considerando che chi lo ordina tramite internet lo ha già ascoltato più volte su Spotify o YouTube: è un fan, un amico”.
Cosa sognavi di fare da bambino e quali sono i prossimi progetti.
“Sono felice di poter dire che i miei sogni sono gli stessi che ho fatto da giovane entrando al Folkstudio. Da dieci anni, grazie all’ospitalità di un locale di Roma, l’“Asino che Vola”, assieme ad alcuni reduci di quella magica stagione gestiamo per un giorno al mese un programma musicale di cantautori indipendenti. Siamo i “Giovani del Folkstudio” e sul nostro palco sono saliti ospiti illustri come Harold Bradley, Beppe Gambetta, Francesco De Gregori, tanti altri, l’emergente Lucio Corsi. E poi giovani veri, ragazzi e ragazze che si stanno facendo conoscere preferendo una musica lontana dallo show business più volgare. Il nostro sogno è che questa nicchia si allarghi e offra alle generazioni future la stessa gioia che ha offerto a noi, riempiendo la nostra esistenza”.
Grazie Luigi, non vedo l’ora di ascoltare il Cd “SINARRA” e assistere a uno spettacolo dei “Giovani del Folkstudio”. Incontrandoti e intervistandoti hai realizzato un mio sogno.